La fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa. (Roland Barthes)

Tutto questo mare che ci guarda
Grazie alle luci che illuminano gli scenari marini, le immagini cercano di stare sul crinale che oggi separa, in forme sempre più labili e imprecise, la fotografia dalla pittura proponendo l’occasione per una riflessione su noi stessi. La mostra si colloca quindi nello spazio indefinito là dove la pittura ha smesso di essere pittura ma dove la fotografia non ha ancora iniziato ad essere fotografia.
Con queste esposizioni si vuole offrire l’opportunità per una rilettura del diaframma tra il bordo del mare e l’infinito, diaframma costruito sul rapporto tra natura e intervento umano. Le immagini, superando lo stesso concetto di unità di spazio-tempo tipico della fotografia, assumono un carattere universale che oltrepassa la stessa riflessione, comunque inevitabile, sul rapporto tra modernità e sfruttamento delle risorse marine. Da un lato, gli elementi naturali acquisiscono quasi l’aspetto di scenari postatomici in cui si rileggono sia l’antico quieto andamento delle onde, sia le fratture imposte dalla contemporaneità, dall’altro, in una atmosfera poetica resa surreale dalle cromie ai limiti del verosimile, i soggetti fotografati sono ridotti all’essenziale dall’uso di un linguaggio proprio della metafisica, intimista e contemplativo, che li immerge in una irreale profondità spaziale allo stesso tempo formale e concettuale.
Il tema non è affrontato sulla base di ciò che oggi l’occhio umano ha o non ha intenzione di vedere osservando, più o meno intenzionalmente, lo scenario naturale, quanto invece, ribaltando il punto di osservazione, di quale sia il punto di vista dell’oggetto indagato, oggetto che solo apparentemente non ha occhi per vedere e orecchie per sentire. La trasformazione quindi dell’uomo da osservatore in osservato, da giudice in soggetto giudicato, ci aiuta a riflettere su noi stessi posti di fronte al mondo ma privati della arrogante sovranità del nostro sguardo che predetermina la composizione di ogni panorama possibile. 
Per molte migliaia di anni l’essere umano ha avuto l’opportunità di osservare poche immagini nel corso della propria vita. Solo molto recentemente le immagini viste e fatte proprie nel corso dell’esistenza dell’individuo sono cresciute esponenzialmente fino a creare fenomeni di stanchezza se non di vero e proprio rifiuto. Superata la fase dominata dalla riproduzione di massa di esemplari identici si è passati oggi alla quotidiana auto produzione di decine di singole immagini destinate agli scopi più diversi. Schiacciati sotto una montagna di “scatti fotografici” tali processi si sono tradotti in un diffuso sentimento di arroganza visiva sviluppando un generalizzato approccio di acquisizione acritica del soggetto fotografato.​​​​​​​
Quello che qui si propone è uno scarto deciso da questo inquietante scenario mediante l’osservazione pacata e lenta di fotografie in cui l’osservatore accetti di mettersi in gioco e lasciarsi osservare, e quindi anche valutare, dall’oggetto ritratto fino a cogliere l’occasione per una riflessione non episodica su di sé. Una riflessione generata dall’opportunità di trovarsi di fronte a immagini che non impongono punti di vista predeterminati ma che anzi sono disponibili agli ascolti più diversi.
“È quello che c'è da vedere nell'invisibile, che bisogna sforzarsi di vedere. Non costa nessuna fatica vedere quello che è già esposto alla luce del sole. Se ci limitiamo a vedere quello che c'è già da vedere, tuttavia, non abbiamo ancora cominciato a vedere il mondo. Gli occhi, come è noto, sono presuntuosi e pretendono di dettare al mondo come dev'essere visto. Lo sguardo, cioè pensa di essere uno sguardo sovrano. Ma finché si vede solo quello che gli occhi credono di vedere, o - il che è lo stesso - di non vedere, non si è appunto neanche cominciato a vedere quello che il mondo offre alla vista. (Felice Cimatti, L'occhio selvaggio. Sul lasciarsi vedere).

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